Avvocati Part Time

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ALTRE Q.L.C. di l. 339/03 e l. 247/12, art. 18, lett. d: superare Corte cost. 166/12 (x 8/10/13)

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CLICCA QUI PER VEDERE TUTTE LE CENSURE ALLA SENTENZA DELLE SS.UU. n. 11833/2013 (E ALLE SENTENZE "GEMELLE", CON ESSA DEPOSITATE IL 16 MAGGIO 2013), RACCOLTE NELLA MEMORIA IN VISTA DELL'UDIENZA DELLE SS.UU. CIVILI DELLA CASSAZIONE DELL'8 OTTOBRE 2013.

CONFUTAZIONE DI CASSAZIONE, SS.UU. CIVILI, n. 11833 del 9 aprile 2013 (e sentenze "gemelle", con essa depositate il 16 maggio 2013) E DIMOSTRAZIONE DELLA NECESSITA' DI SUPERARE LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 166/12 E DI PROPORRE (OLTRE A QUELLE DI CUI AL RICORSO DELL'AVV. PERELLI E SUCCESSIVE DIFESE) ULTERIORI QUESTIONI DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE (IN RIFERIMENTO AGLI ARTT. 3, 4, 24, 41, 98, 117, COMMA 1 E COMMA 2 LETTERA E, DELLA COSTITUZIONE) DELLA L. 339/03, NONCHE' DELL'ART. 18, LETTERA D, DELLA L. 247/12 <OVE SI RITENGA CHE TALE ULTIMA DISPOSIZIONE: 1) CONFERMI L'INCOMPATIBILITA' TRA AVVOCATURA E RAPPORTO DI IMPIEGO; 2) SIA EFFICACE ANCHE PRIMA DELLA EMANAZIONE DEL REGOLAMENTO MINISTERIALE PREVISTO DALL'ART. 15, COMMA 2, DELLA L.247/12; 3) NON DEBBA ESSERE DISAPPLICATA IN FORZA DELLA PRIMAZIA DEL DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA>.

DI SEGUITO SI ESPONGONO DIFFUSAMENTE LE RAGIONI DA PORRE A FONDAMENTO DELLE Q.L.C. DELLA L. 339/03 E, EVENTUALMENTE, DELL'ART. 18, LETTERA D, DELLA L. 247/12. Si anticipa che tali norme sono incostituzionali in sintesi (tra l'altro) per irragionevolezza nel perseguire la prevenzione del conflitto di interessi; per reintroduzione di incompatibilità senza motivi imperativi di interesse generale e anzi quale superfluo "duplicato" della cancellazione disciplinare dall'albo; per mancata concessione di un periodo transitorio dopo l'abrogazione dell'incomptibilità in data 13 agosto 2012, in forza dell'art. 3, comma 5bis, del d.l. 138/11; per disparità di trattamento e per discriminazione che si realizzano nei confronti dell'impiegato pubblico a part time ridotto rispetto a parlamentari, commissari di governo, giudici di pace, VPO, GOT, GOA, "giudici ausiliari",  ecc.. , tutti ammessi a fare anche l'avvocato; per trattamento deteriore,  introdotto dalla legge 247/12, degli impiegati pubblici a part time ridotto, rispetto agli insegnanti e ai dipendenti di uffici legali degli enti pubblici, riguardo alla permanenza dell'iscrizione negli albi forensi (nel mentre si introducono più rigide incompatibilità, solo alcune categorie di privilegiati diventano "avvocati ad esaurimento"); per violazione del principio di proporzionalità attraverso i contrasti, nel sistema delle compatibilità e incompatibilità forensi, tra incompatibilità troppo rigorose e compatibilità lassiste (tra queste ultime la l. 247/12, all'art. 18, lett. c, aggiunge i casi di amministratori di società pubbliche, mentre l'art. 11, comma 2, e l'art. 21, comma 6, aggiungono -con scandalosa esenzione da basilari doveri di formazione e continuità nell'attività professionale- i parlamentari; per irragionevolezza (ove si ritenga che la l. 339/03 sia posta a tutela del buon andamento della P.A. e non del corretto esercizio della professione forense), stante la compiutezza del sistema (anche disciplinare) di controllo dell’impiegato pubblico, e stante la consequenziale suplerfluità delle previsioni di cui alla l. 339/03.

Si legge nella sentenza 11833/2013 delle SS.UU., (pagine da 20 a 23) un ampio richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n. 166 che, a seguito di due ordinanze di identico contenuto delle SS.UU. civile della Cassazione, dei 6-6-2010, che avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale, sia in relazione agli articoli 3-4-35 e 41 Cost., sia in riferimento al parametro della ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3 secondo comma Cost., degli articoli 1 e 2 della legge 25-11-2003 n. 339, ha dichiarato non fondate tali questioni.
Le SS.UU., nella sentenza 11833/13 (e nelle sentenza "gemelle" depositate il 16 maggio 2013) aderiscono alle valutazioni di Corte cost. 166/12 con riguardo alla riconosciuta legittimità costituzionale della l. 339/03 (non solo in relazione al tema dell'affidamento dei "vecchi avvocati part time") ma non approfondiscono affatto le ragioni del proprio rifiuto di sottoporre alla Corte costituzionali ulteriori questioni di legittimità costituzionale della l. 339/03, come erano state eccepite. Tali ulteriori q.l.c. vanno, invece, proposte alla Corte costituzionale.


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A) LE RAGIONI DELL'INEFFICACIA TEMPORANEA DELL'ART. 18, LETTERA D, DELLA LEGGE 247/12 CHE IMPEDISCONO CHE NEL PRESENTE PROCEDIMENTO SI FACCIA APPLICAZIONE DI TALE NORMA.

In forza dell'art. 65, comma 1, della l. 247/12, l'art. 18, lettera d, della medesima legge di riforma forense non è oggi efficace, come fonte di cancellazione dall'albo per incompatibilità, e tale resterà sino a quando interverrà il regolamento ministeriale che, ai sensi dell'art. 15, comma 2, disciplini "i casi di cancellazione dall'albo".

A favore di tale soluzione militano anche le seguenti considerazioni:

a) ove la legge 247/12 ha voluto anticipare l’operatività di sue norme attinenti a materie nelle quali dovrà intervenire un regolamento lo ha fatto espressamente (vedasi art. 65 co. 4);

b) le norme della l. 247/12 relative alla cancellazione dall'albo per incompatibilità e per le quali l'art. 15, comma 2, prevede l'integrazione con regolamento ministeriale, non possono essere di immediata applicazione anche perchè chi risulti già iscritto all'albo prima dell'entrata in vigore della l. 247/12 ha fatto affidamento sull’inesistenza ("in ogni caso dal 13 agosto 2012", ex art. 3, comma 5-bis, d.l. 138/11) di un divieto quale quello reintrodotto dall'art. 18, lettera d, e tale affidamento verrebbe mortificato se la cancellazione dall'albo per incompatibilità dovesse trovare immediata applicazione, senza cioè la previsione, ad opera del detto regolamento, d'un periodo transitorio volto a consentire agli interessati di optare entro un arco di tempo ragionevole tra l'una o l'altra delle attività divenute incompatibili.

Al riguardo occorre ricordare che Corte cost. 166/12 ha condizionato la legittimità d'una legge che reintroduca (come fece la l. 339/03) l'incompatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e la professione forense alla previsione d'un periodo transitorio sufficientemente lungo, nel quale, detta nuova incompatibilità non operi.

E' evidente che, non essendo previsto dall'art. 18, lettera d, della l. 247/12 tale periodo transitorio, esso dovrà essere previsto nel regolamento ministeriale da emanarsi ai sensi dell'art. 15, comma 2, a disciplina dei "casi di cancellazione dall'albo".

Ovviamente, la necessità costituzionale di detta disciplina transitoria dei casi di cancellazione dall'albo non impedisce che sia, invece, immediatamente operativa la norma dell'art. 18, lettera d, in ordine al divieto di iscrizione per gli abilitati che chiedono d'essere iscritti all'albo forense ma svolgono anche "attività" di lavoro dipendente (anche con orario ridotto).

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B) LA NECESSITA' DI PROPORRE Q.L.C. DELLA L. 339/03 E, EVENTUALMENTE, DELL'ART. 18 LETTERA D, DELLA L. 247/12, PER IRRAGIONEVOLEZZA.

La legge di riforma forense, reintroducendo all'art. 18 l'incompatibilità tra avocatura e attività di lavoro pubblico a part time ridotto, è irragionevole perchè, pur avendo l'obiettivo contrario, finisce per ostacolare la prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione. Tale prevenzione andrebbe perseguita soprattutto con una più razionale organizzazione della pubblica amministrazione, capace di rafforzare l'organigramma attraverso l'inserimento e la valorizzazione di ruoli professionali. L'art. 18, lett. d) della l. 247/12, invece, va in senso contrario: reintroduce, infatti, l'incompatibilità tra attività di lavoro pubblico a part time ridotto e professione di avvocato (incompatibilità che era stata appena abrogata "in ogni caso dalla data del 13 agosto 2012" in forza dell'art. 3, comma 5-bis, del d.l. 138/2011).

Escludere i c.d. "avvocati-part-time" dalle pubbliche amministrazioni va contro, evidentemente, ogni serio intento di riforma delle pubbliche amministrazioni: la funzionalità dei publici poteri, infatti, deve essere incentivata con interventi che ridisegnino in primo luogo competenze e organigrammi nel segno della professionalità vera (come quella quotidianamente aggiornata dalla frequenza delle aule di giustizia). Si dovrebbe assicurare all'ente pubblico lo stabile consiglio dei suoi dipendenti abilitati all'esercizio della professione forense, ammettendo questi ultimi all'iscrizione all'albo professionale degli avvocati entro i limiti che Corte cost. 189/2001 ha ritenuto l' "uovo di Colombo" per conciliare risparmi notevoli per le pubbliche finanze, miglioramento delle capacità professionali dell'apparato pubblico, salvaguardia della libertà di lavoro professionale. Quale sia la strada per combattere seriamente la corruzione dei pubblici poteri lo scrissero a chiare note, con riguardo particolare agli enti locali, i professori Cassese, Pizzorno, e Arcidiacono, chiamati a comporre il c.d. “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione”, istituito con decreto n. 211 del 30.9.1996 dall’allora Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante. «Una delle ragioni principali della corruzione -scrissero- è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».

E' dunque evidente che sussistono motivi imperativi di interesse generale per confermare, e non per escludere, la compatibilità tra impiego pubblico a part time ridotto e l'esercizio delle professione forense.

Le incompatibilità nel pubblico impiego sono comparse nell’ordinamento in base a ragioni di ordine più sociale che giuridico all’inizio del secolo XX e la svolta di tipo pubblicistico impressa all’ordinamento le ha giustificate e conservate nella prospettiva di uno speciale contenuto etico (ancor prima che giuridico) del rapporto tra Stato e dipendente pubblico, in cui il contenuto economico ricopriva un ruolo non determinante nella qualificazione della relazione. Inoltre, l’evoluzione in senso autoritario dello Stato e soprattutto la sua identificazione con l’esecutivo portarono a definire come tratto tipico del rapporto di lavoro pubblico un obbligo di esclusiva, che lo distingueva notevolmente da quello del lavoro privato.

Una volta instauratosi l’ordinamento democratico, è venuta sostanzialmente meno l’identificazione dello Stato con l’esecutivo e si è avuta maggiore percezione dell’autonomia dell’amministrazione dall’influenza di quest’ultimo, ponendosi il problema di recuperare una dimensione economica del rapporto di lavoro pubblico e di ricondurlo nell’alveo del diritto comune.

In tal modo si è creata una certa confusione tra esigenze pubbliche di varia natura e regolazione del rapporto di lavoro, per cui in nome dell’interesse pubblico, indubbiamente sotteso all’azione delle singole amministrazioni, si sono giustificati aspetti peculiari del rapporto di lavoro pubblico.

Un simile sistema presenta delle contraddizioni che non sono riconducibili a ragioni di effettivo interesse generale.

E' notorio che proprio i divieti eccessivi di svolgere una seconda attività lavorativa spingono i pubblici dipendenti in part time ridotto, abilitati all'esercizio della professione forense, ad optare per lo svolgimento di attività "in nero", spesso nell'ambito delle usuali attività d'avvocato. Infatti, a fronte di un’organizzazione del lavoro pubblico in part time ridotto, legittimamente caratterizzata da orari mediamente contenuti, non sono pochi coloro che ritengono di utilizzare il proprio tempo libero in attività remunerative che, se anche avessero l’intenzione di regolarizzare, dovrebbero comunque tenere nascoste a fronte dei divieti di cui stiamo parlando. Credo che ci troviamo, sotto questo profilo, davanti ad un caso tipico di eterogenesi dei fini: l’intento di combattere situazioni irregolari (anche sul piano fiscale) in realtà le incoraggia.

Peraltro l’esigenza di assicurare al solo datore pubblico la piena disponibilità delle energie morali e fisiche dei propri dipendenti non può assolutamente giustificarsi, se non in base ad una sistematica che preveda una specialissima soggezione del lavoratore; esorbitante ormai rispetto a quanto chiarito da Corte cost. 189/01 in ordine al superamento della c.d. esclusività del rapporto di lavoro del semplice impiegato pubblico.

Ma non basta: in un sistema democratico e liberale quale è il nostro, il sacrificio di parte delle libertà individuali (e massimamente di quelle che possono permettere al singolo di soddisfare i propri bisogni e di promuovere la propria posizione socio-economica) deve essere giustificato in base a solide basi di portata generale. Anche in un sistema in cui il rapporto tra datore pubblico e dipendente si caratterizzi per una speciale supremazia del primo rispetto al secondo, il sacrificio delle libertà in parola può essere giustificato sul piano dei principi generali dell’ordinamento, solo a fronte della effettiva necessità di tutelare un preciso e rilevante interesse pubblico; interesse che non si può più asserire esistente in maniera generale nel caso dei semplici impiegati pubblici a part time ridotto che intendano fare anche l'avvocato.

Bene da tutelare è certamente il buon andamento dell’azione amministrativa che deve essere protetto da ogni minaccia di “parzialità” nel suo concreto svolgimento. In un contesto in cui il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni è da considerarsi un rapporto di diritto, però, tale protezione non inerisce –salvo casi eccezionali di necessità preventive che non ricorrono riguardo al parallelo esercizio della professione forense– le prestazioni dei dipendenti se non con la previsione, a tutela del loro corretto adempimento, delle normali regole sul contratto e del potere disciplinare.

In altre parole ogni volta che un dipendente pubblico, per ragioni personali della più svariata natura (l’interesse personale, ma anche la negligenza o la superficialità), non adempie alla propria prestazione, tale inadempimento determina un’inefficienza del servizio per la quale egli sarà sottoposto al potere disciplinare dal datore di lavoro, senza nessuna necessità di ricorrere, di regola, a misure preventive di conflitti di interessi. Qualora, tuttavia, si voglia tutelare maggiormente il datore pubblico a garanzia della efficienza e correttezza del servizio, si potrà prevedere in capo al dipendente qualche divieto di svolgere attività extralavorative solo e soltanto qualora queste possano condizionare negativamente il risultato dell’azione amministrativa.

E’ evidente come sia eccessiva, illogica e incostituzionale la previsione di divieti generalizzati e assoluti, dal momento che in capo alla gran massa dei semplici impiegati pubblici non è riconoscibile la possibilità di condizionare direttamente l’azione dell’ente dal quale dipendono (condizionare cioè l’azione dell’ente fino a trasgredire i principi del buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa).

Peraltro, volendo mantenere la previsione di norme generali sull’incompatibilità nel pubblico impiego, occorrere riconoscere che l’azione amministrativa può essere “parziale” a causa di ingerenze di varia natura riconducibili alla sfera degli interessi religiosi, politici, sindacali, ideologici ed (anche ma non solo) economici, che possono condizionare il lavoratore nello svolgimento della propria attività in qualità di pubblico dipendente. Tali “moventi” del lavoratore non potranno tuttavia sempre e comunque condizionare l’azione amministrativa nel senso dell’effettiva negazione della sua imparzialità, soprattutto per l’ovvia ragione che non tutti i pubblici dipendenti che siano semplici impiegati (e, si badi, non dirigenti) possono condizionare l’azione dell’amministrazione. Ciò potrà avvenire soltanto in casi particolari e specifici, che le singole amministrazioni potrebbero individuare, sia in termini generali ed astratti sia in termini di effettivo pericolo/danno del bene tutelato, a fronte dell’individuazione di limiti normativi chiari in relazione al fine perseguito.

In tale prospettiva ci si deve indirizzare verso un sistema in cui: le singole amministrazioni analizzino e disciplinino concretamente le situazioni riscontrabili al loro interno; la normativa faccia chiaro riferimento all’individuazione del bene tutelato; la autorità giudiziaria venga investita della piena conoscenza sostanziale delle fattispecie.

E’ evidente che i cennati pericoli appaiono ben rari a fronte di profili professionali di medio/basso livello (come nel caso del ricorrente) e, soprattutto, tali da non contribuire alla determinazione e all’attuazione delle scelte o alla formazione della volontà dei soggetti pubblici.

Sarebbe, al più, da implementare un sistema in cui venga imposto al dipendente, anche semplice impiegato, in base alla posizione che occupa nell’ente, un dovere di informazione relativo alle attività e agli interessi della sua vita privata che possono potenzialmente determinare il conflitto in parola affinchè, alla luce delle dichiarazioni formulate, l’amministrazione possa eventualmente segnalare l’insuperabile ostacolo allo svolgimento (corretto) delle mansioni ovvero provvedere a mutare le modalità di utilizzazione del dipendente.

--- Come giustamente afferma Sergio Pignataro in un suo articolo su www.lexitalia.it, dal titolo "Spunti critici su taluni profili della disciplina della professione forense": "È importante rilevare che l’attività economica è garantita anche ove non persegua fini di utilità sociale o non miri allo sviluppo della libertà, della sicurezza e della dignità umana, essendo sufficiente – per poter soddisfare il precetto costituzionale – che essa non sia svolta in contrasto con tali valori. Né può ritenersi che la legge determinativa di programmi e controlli abbia la capacità di far venire meno il principio di libertà dell’iniziativa economica, non solo in ragione dell’unitarietà dell’art. 41 Cost., e dei suoi tre commi, ma anche sulla base delle risultanze dei lavori preparatori dell’Assemblea costituente. La legge non può far altro che indicare degli obiettivi, dotati di una valenza puramente orientativa o indicativa (ad esempio mediante misure di incentivazione); non ha la facoltà di incidere autoritativamente sulla libertà del privato di determinare le proprie iniziative e di organizzarsi di conseguenza, non potendo i programmi ed i controlli essere tali da sopprimere l’iniziativa privata, ma solo da indirizzarla e condizionarla. ... Il divieto legislativo in esame appare espressione di una concezione iperstatalista che sancisce il predominio e la supremazia incondizionati dello Stato o pubblico potere sull’individuo, i cui interessi sono in posizione di subalternità rispetto ai presunti interessi di cui è portatrice la parte pubblica. Non può certamente affermarsi che l’avvocato dipendente pubblico garantisca, di per sé, livelli più bassi di affidabilità e di professionalità: è il cliente che, scegliendo il professionista a cui affidare la propria difesa, stabilisce scientemente il grado di tutela della sua posizione costituzionalmente garantita (art. 24 Cost.). E non sembra sufficiente a sostenere argomentazioni contrarie la presunta esistenza di asimmetrie informative tali da impedire al cliente di valutare correttamente ex ante la competenza e la qualità della prestazione professionale. Invero, l’attuale normativa sulle professioni e le normali dinamiche di mercato dei servizi professionali pongono il cliente in una posizione non dissimile da quella rivestita in altri mercati che presentano profili di estrema delicatezza rispetto alle esigenze dei consumatori.  Per di più, ben potrebbe un dipendente pubblico con rapporto part time specializzarsi in una determinata branca giuridica e gestire un numero molto limitato di pratiche all’anno di consulenza o di rappresentanza e difesa processuale del cliente nel migliore dei modi. ... Peraltro, specie a causa delle politiche fiscali restrittive adottate negli ultimi anni dal Governo, che hanno visto una sensibile diminuzione dei salari reali dei dipendenti pubblici, vi sono impiegati della pubblica amministrazione che percepiscono stipendi di entità insufficiente ai bisogni propri e della propria famiglia, che potrebbero giustamente voler integrare la loro retribuzione svolgendo attività autonome professionali.  I professionisti devono, comunque, competere ed affermarsi in un mercato pienamente concorrenziale che premi i più competenti, capaci ed affidabili, indipendentemente dal tempo che dedicano alla professione e dal numero delle pratiche che gestiscono.   Semplicemente, sarebbe necessario impedire ai dipendenti pubblici in regime di diritto privato e part time che vogliano esercitare la professione di avvocato di agire in conflitto di interessi con l’amministrazione di appartenenza. E ciò, come è parso avallare la stessa Consulta nella citata sent. n. 189 del 2001, sembrerebbe garantito dall’ordinamento vigente. Tutt’al più, si potrebbe rendere necessario o opportuno rinforzare l’apparato normativo che garantisce le amministrazioni in tal senso e sanziona i comportamenti scorretti. ..... In realtà, però, tale norma sancisce essenzialmente il divieto, per il pubblico impiegato, di assumere un rapporto alle dipendenze di altro soggetto pubblico o privato che sia retribuito. Non può intendersi, invece, in senso ampio, divieto di esercitare qualsiasi altra attività oltre a quella di servizio. Altrimenti, dovrebbero rientrare nel dovere di esclusività anche le attività a titolo gratuito di carattere politico, sportivo, culturale, assistenziale, religioso, di beneficienza, ecc. e ciò sarebbe inammissibile. Anche le attività sportive o culturali, come la frequenza di piscine e palestre e lo studio, assorbono energie lavorative. Ma, vietare qualsiasi altra attività che comporti il dispendio di energie fisiche e mentali rispetto al lavoro pubblico sarebbe una limitazione della libertà personale assolutamente non consentita dalla Costituzione, né possibile in pratica.   Del resto, la legge vigente consente al pubblico dipendente qualificato in una o più branche giuridiche di svolgere, se autorizzato previamente dall’amministrazione, attività di consulenza in qualità di esperto delle discipline che vengono in rilievo. Vieppiù, è stata la stessa Corte costituzionale ad escludere, nel previgente ordinamento, che la cumulabilità tra impiego pubblico e professione forense ledesse il disposto dell’art. 98 Cost. (sent. 189 del 2001). Per quanto riguarda la peculiarità del diritto di difesa sancito costituzionalmente e caratterizzante precipuamente l’attività di avvocato, basti notare che non solo l’attività di avvocato ha un addentellato costituzionale (art. 24 Cost.), ma anche quella di medico (art. 32 Cost.), di professore (artt. 9 e 33 Cost.), di magistrato (artt. 101 e seguenti Cost.) ecc.   L’attività di medico di una struttura pubblica interessa un bene assoluto, come la salute dei cittadini, e quella di professore un valore primario, come l’istruzione, ma sia il medico che il professore possono essere influenzati fortemente dallo svolgimento di attività ulteriori come quelle libero-professionali che spesso assorbono o distraggono, in maniera rilevante, interessi, tempo ed energie.   Anche le attività degli ingegneri e dei dottori commercialisti possono avere ricadute su interessi di rilievo costituzionale come l’incolumità psico-fisica e l’integrità della proprietà e del patrimonio. Si pensi all’ingegnere che sbaglia il progetto di costruzione di un edificio che crolla e produce la morte o le lesioni di persone e danni gravi alle cose, ovvero una dichiarazione dei redditi errata o un bilancio non correttamente redatto che producono danni patrimoniali, anche ingenti, ai privati clienti e all’erario, con conseguenze talvolta penali.   Nè può sostenersi che il diritto di difesa, sancito dall’art. 24 Cost. come diritto inviolabile dell’individuo, riguardi direttamente la professione di avvocato, giacché questa viene in rilievo in chiave unicamente strumentale e servente rispetto alla tutela dei diritti e degli interessi della persona assistita. Ed, invero, l’importanza dell’assistenza tecnica di un difensore si desume dalla necessità di una completa e corretta prospettazione, in termini giuridici, delle ragioni e richieste delle parti indispensabile nella generalità dei procedimenti giurisdizionali.   Non sembra corretto dare per scontato che la professione di avvocato comporti maggiori, più pericolosi e più frequenti possibilità di interferenze e conflitti di interessi con la posizione di dipendente pubblico rispetto ad altre professioni, come sembrerebbe aver valutato la Consulta nella citata sent. n. 390 del 2006.   Un maggiore rischio di commistione e una maggiore possibilità di conflitto paiono più plausibili per dipendenti pubblici, come i docenti universitari o i soggetti che svolgono funzioni giudicanti o occupano ruoli politici di rilievo, ai quali la legge non vieta affatto, ma tutt’al più limita, la possibilità di esercitare la libera professione di avvocato. E' pur vero che potrebbe sostenersi l’incostituzionalità delle previsioni di legge che consentono l’esercizio di funzioni di giudice, docente, ovvero la copertura di cariche politiche congiuntamente alla professione di avvocato, piuttosto che l’illegittimità della norma che preclude tale professione ai dipendenti pubblici; ma la Consulta non è sembrata, nelle occasioni in cui si è espressa a riguardo, avallare nemmeno tale conclusione.   Peraltro, l’attività di avvocato non sempre incide sulla libertà personale e su interessi rilevanti della vita del cliente (come la famiglia o la proprietà). Un civilista che non curi adeguatamente una causa, ad esempio di risarcimento danni, potrebbe produrre solo conseguenze patrimoniali, a volte di esiguo valore."

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C) LA NECESSITA' DI PROPORRE Q.L.C. DELLA L. 339/03 E, EVENTUALMENTE, DELL'ART. 18, LETTERA D, DELLA L. 247/12, PER DISPARITA' DI TRATTAMENTO E ULTERIORE PROFILO DI IRRAGIONEVOLEZZA.

L'art. 2 della l. 247/2012, intitolato "Disciplina della professione di avvocato", dispone al comma 6: "6. Fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l'attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all'attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati. È comunque consentita l'instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata, aventi ad oggetto la consulenza e l'assistenza legale stragiudiziale, nell'esclusivo interesse del datore di lavoro o del soggetto in favore del quale l'opera viene prestata. Se il destinatario delle predette attività è costituito in forma di società, tali attività possono essere altresì svolte in favore dell'eventuale società controllante, controllata o collegata, ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile. Se il destinatario è un'associazione o un ente esponenziale nelle diverse articolazioni, purché portatore di un interesse di rilievo sociale e riferibile ad un gruppo non occasionale, tali attività possono essere svolte esclusivamente nell'ambito delle rispettive competenze istituzionali e limitatamente all'interesse dei propri associati ed iscritti".

Non è agevole comprendere cosa il legislatore abbia voluto dire (a partire dal concetto di attività "di competenza" dell'avvocato). Però, la rubrica dell'articolo ("Disciplina della professione di avvocato") e la mancanza di riferimenti soggettivi che impediscano di ritenere che nel secondo, terzo e quarto periodo del riportato comma 6 dell'art. 2 si sia voluto far riferimento all'avvocato come parte d'un contratto di lavoro subordinato o di prestazione d'opera continuativa e coordinata (si dispone, infatti, che "E' comunque consentita l'instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata ...") fanno ritenere che il legislatore abbia voluto consentire all'avvocato, nelle ipotesi in cui svolga attività di consulenza e assistenza legale stragiudiziale (che non è certo attività riservata in via esclusiva agli avvocati), di farlo nell'ambito di taluni rapporti di lavoro subordinato o di prestazione d'opera continuativa e coordinata.

L'aver previsto, al comma 6 dell'art. 2 l. 247/2012, la possibilità, per l'avvocato, di svolgere anche solo l'attività di lavoratore dipendente nei limiti di cui al secondo, terzo e quarto periodo del comma 6 del medesimo art. 2 ha rilevanti conseguenze sistematiche, nell'interpretazione della legge di riforma forense in tema di incompatibilità. Impone, infatti, di riconoscere incostituzionale per irragionevolezza e disparità di trattamento l'imposizione della incompatibilità per i dipendenti pubblici a part time ridotto, all'art. 18, lettera d.

Infatti, l'aver ammesso (nei limiti di cui al secondo, terzo e quarto periodo del comma 6 dell'art. 2) talune particolari fattispecie di compatibilità tra lavoro dipendente e iscrizione all'albo forense (fattispecie che nulla autorizza a qualificare eccezionali rispetto agli ordinari rapporti di lavoro dipendente, di modo che non potrebbero, neppure in via d'eccezione alla regola, esser ritenute compatibili con la professione forense) comporta l'evidente incostituzionalità (per irragionevolezza e disparità di trattamento) della norma che, all'art. 18, lettera d, pretende di introdurre una generale incompatibilità tra lavoro dipendente e professione di avvocato.

A seguito di q.l.c. che si proponesse in tal senso, la Corte costituzionale dovrebbe dichiarare la censurata incostituzionalità e non potrebbe giustificare la disparità di trattamento col richiamo all'ampia discrezionalità regolatoria del legislatore (discrezionalità in passato spesso richiamata a giustificazione della disciplina delle incompatibilità forensi).

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D) RICHIESTA DI SOLLEVARE, RELATIVAMENTE ALLA L. 339/03 E ALL'ART. 18, LETTERA D, DELLA L. 247/12 (SE LO SI RITIENE EFFICACE), QUESTIONE DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PER ULTERIORI RAGIONI E ANCHE IN CONSEGUENZA DELLE SOPRAVVENIENZE NORMATIVE RISPETTO AL MOMENTO D'ADOZIONE, DA PARTE DELLE SEZIONI UNITE, DELL'ORDINANZA DI RIMESSIONE n. 24689/2010.

Nel suo ricorso innanzi alle Sezioni Unite, l'Avv. Perelli ha chiesto di sollevare q.l.c. della l. 339/03 per violazione degli artt. 2,3,4,24,33,35,41,81,97,111,117 Cost..

Alla detta richiesta (che comunque si ribadisce per l'ipotesi in cui le Sezioni Unite non ritengano abrogata la l. 339/03 ad agosto 2012 <da parte degli artt. 12 e 2 del DPR 137/12 e, "in ogni caso alla data del 13 agosto 2013", da parte dell'art. 3, comma 5-bis, del d.l. 138/11>, si aggiunge ora altra richiesta, per l'ipotesi in cui le Sezioni Unite ritengano che l'art. 18, lettera d, della l. 247/12 (ius supervaniens) sia applicabile nella presente causa ed imponga di confermare la cancellazione dall'albo forense l'Avv. Perelli (in modo che non potrebbe giovare al ricorrente l'eventualmente riconosciuta abrogazione della l. 339/03). Tale nuova richiesta è quella di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 18, lettera d, della l. 247/12 in riferimento ai medesimi articoli della Costituzione.

La violazione di tali articoli della Costituzione da parte dell'art. 18, lettera d, della l. 247/12 -per i motivi esposti nel ricorso alle SS.UU.- appare manifesta (più di quanto poteva ritenersi realizzata la violazione dei medesimi articoli ad opera della l. 339/03 allorchè le Sezioni Unite sollevarono q.l.c. con ordinanza n. 24689/2010, limitata alla violazione di "diritti quesiti dei vecchi avvocati part time").

Infatti, la abrogazione della l. 339/03, ad agosto 2012, integra riconoscimento legislativo della posizione, ad opera della l. 339/03, di una indebita e incostituzionale (anche ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. e, della Costituzione) restrizione all'accesso e all'esercizio della professione forense. Ne è prova evidente già la rubrica dell'art. 3 del d.l. 138/2011 che si intitola alla "abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni". " Indebite restrizioni", per legge, all'accesso e all'esercizio delle professioni costituiscono, evidentemente, legislazione incostituzionale in relazione agli articoli della Costituzione sopra indicati.

 

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E) ANCORA SULLA INCOSTITUZIONALITA' DELLA 339/03 E, EVENTUALMENTE, DELL'ART. 18, LETTERA D, L. 247/12, PER IRRAGIONEVOLE SPROPORZIONE NEL PERSEGUIRE L'INTENTO DI PREVENIRE I CONFLITTI DI INTERESSI.

A sostegno della necessità di abrogare tutti i divieti di iscrizione agli albi forensi e i doveri di cancellazione d'ufficio dai medesimi albi che ancora oggi si fondano su presunzioni odiose di astratti conflitti di interesse, si può valutare quanto scrivono le Sezioni Unite civili della Cassazione nella sentenza n. 22882 del 2011, depositata il 4 novembre 2011: "L'art. 37 del Codice Deontologico Forense mira ad evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell'operato dell'avvocato e, quindi, perchè si verifichi l'illecito, è sufficiente che potenzialmente l'opera del professionista possa essere condizionata da rapporti di intreresse con la controparte. Facendo riferimento alle categorie del diritto penale, l'illecito contestato all'avvocato ... è un illecito di pericolo e non di danno. Quindi l'asserita mancanza di danno è irrilevante perchè il danno effettivo non è elemento costitutivo dell'illecito contestato."

Da tale insegnamento della Cassazione non può che scaturire una domanda: se le giuste sanzioni disciplinari (graduate dal Consiglio dell'Ordine in base alla gravità della condotta) devono essere irrogate al mero verificarsi del pericolo di conflitto di interessi, che senso ha prevedere, in aggiunta, nella legge professionale forense, tante incompatibilità per conflitti di interessi presunti irragionevolmente, come molti di quelli di cui all'art. 3 della legge professionale? Altrimenti detto: che senso ha prevedere un divieto di iscrizione negli albi per incompatibilità per conflitti di interessi in situazioni in cui il rischio del conflitto è evidentemente remoto ? Che senso ha, poi, prevedere una cancellazione dagli stessi albi forensi, non "disciplinare" ma "amministrativa" e da disporre nel caso in cui sopravvenga, per l'avvocato iscritto, una causa di incompatibilità precedentemente non sussistente?

Quanto affermato dalle sentenze della Corte costituzionale n. 189/2001 e della Cassazione a sezioni unite n. 22882/2011 deve far ritenere incostituzionale (per violazione degli articoli 3, 4, 41, 117 comma 1 Cost.) la previsione, all'art. 3 della legge professionale forense del 1933 e s.m.i., di tutta una serie di ipotesi di incompatibilità, per "cervellotici" conflitti di interesse, con l'esercizio della professione forense. Deve far ritenere parimenti incostituzionale la previsione di tutta una serie di cancellazioni d'ufficio dagli albi, oggi disegnate non come condotte sanzionabili disciplinarmente ma come incompatibilità sopravvenute e fonte di "cancellazione amministrativa" dall'albo.

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F) ULTERIORE ASPETTO DI INCOSTITUZIONALITA' DELLA L. 339/03 E, EVENTUALMENTE, DELL'ART. 18, LETTERA D, DELLA L. 247/12, PER VIOLAZIONE DELLA RAGIONEVOLEZZA.

L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella relazione semestrale (relativa al periodo fino a dicembre 2012 ed inviata al Parlamento ad aprile 2013) sul conflitto di interessi delle alte cariche dello Stato disciplinato dalla l. 215/04 (http://www.agcm.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6381:conflitto-di-interessi-inviata-ai-presidenti-di-camera-e-senato-la-relazione-semetrale&catid=1:news&Itemid=53 ), evidenzia l'importanza dello "strumentario normativo" per controlli adeguati sul conflitto di interessi. Ovviamente trattasi di esigenza d'adeguatezza sentita anche per un controllo dei conflitti di interessi dei semplici impiegati pubblici a part time ridotto che non devono essere discriminati rispetto a soggetti detentori di ben maggiore potere e sospettabili di ben più rilevanti conflitti di interessi (e carenza di indipendenza e autonomia e accaparramento di clientela, quali avvocati), se non lo si voglia disegnare come liberticida.

In fondo, l'AGCM, con la sua invocazione di controlli "adeguati", invita a riconoscere ormai che, se è vero che il legislatore deve regolare le situazioni più evidenti ed indiscutibili di conflitto di interessi, ciò non significa che debba risolvere ogni situazione di conflitto di interessi con il principio della incompatibilità. Nel bilanciamento fra i principi previsti dalla Costituzione, il compito del Parlamento è quello di valutare in modo ragionevole le diverse ipotesi di conflitto e, in relazione alla gravità di ciascuna, graduare il trattamento normativo più appropriato e proporzionato. Questo può essere di volta in volta rappresentato non solo dalla incompatibilità, ma anche, ad esempio, dall'obbligo di dichiarare la situazione di conflitto o di astenersi (vedasi in tal senso, esplicitamente, Corte costituzionale n. 240/2008).

Ad "andare oltre", in materia di professioni (ed anche di professione forense), invita pure la sentenza della Cassazione n. 5975/2013, la quale, richiamando la n. 14684/2012, ricorda che il concetto di "esercizio della professione" deve essere interpretato non in senso statico e rigoroso, bensì tenendo conto dell'evoluzione subita nel mondo contemporaneo rispetto agli anni cui risale la normativa "di sistema".

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G) L'INCOSTITUZIONALITA' PER VIOLAZIONE (QUALE PARAMETRO INTERPOSTO DI COSTITUZIONALITA' EX ART. 117, COMMA 1, COST.) DELLA CEDU COME RECENTEMENTE INTERPRETATA DALLA CORTE DI STRASBURGO (INCONGRUENZA).

La recente sentenza (Costa et Pavan) della seconda sezione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sull'accesso alla procreazione artificiale e sulla diagnosi pre-impianto ritiene sussistere una violazione dell'art. 8 della CEDU in ragione di un’incongruenza che essa ravvisa nel nostro Paese tra le norme sulla procreazione artificiale e quelle sull’aborto.

Vale la pena riportare il filo conduttore del ragionamento seguito dalla Corte, secondo la quale:

force est de constater que le système législatif italien en la matière manque de cohérence. D’une part, il interdit l’implantation limitée aux seuls embryons non affectés par la maladie dont les requérants sont porteurs sains ; d’autre part, il autorise ceux-ci d’avorter un foetus affecté par cette même pathologie (& 64 della decisione)”.

Da tale assenza di coerenza la Corte deduce una violazione del principio di proporzionalità e, conseguentemente, del diritto alla vita privata e familiare garantito dalla CEDU: “compte tenu de l’incohérence du système législatif italien en matière de D.P.I” (acronimo per diagnosi pre-impianto) “la Cour estime que l’ingérence dans le droit des requérants au respect de leur vie privée et familiale a été disproportionnée” con la conseguenza che “ainsi, l’article 8 de la Convention a été enfreint en l’espèce (& 71 della sentenza)”.

Analogo ragionamento deve farsi con riguardo all'incongruenza evidente della regolazione legislativa italiana delle incompatibilità nella professione forense: da un lato, prevenzione sproporzionata dei potenziali conflitti di interesse per costituire incompatibili i semplici impiegati pubblici a part time ridotto; dall'altro, lassismo per ammettere ad esercitare la professione forense i giudici di pace, i Vice Procuratori Onorarri, i mediatori, gli insegnanti, i parlamentari, i GOT, i Commissari di Governo di cui all'art. 2 della l. 215/04, i "giudici ausiliari"-avvocati previsti dal d.l. 69/2013, ecc ...

Ne risulta incostituzionalità della l. 339/03 e dell'art. 18, lettera d, della l. 247/12.

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H)  ALTRI ASPETTI DI INCOSTITUZIONALITA' DELL'ART. 18, LETTERA D, DELLA L. 247/12 (IN RELAZIONE ALL'ART. 3, 4, 41 COST.) OVE LO SI INTENDA (COME L'INTENDE LA SENTENZA DELLE SS.UU. 11833/13) QUALE CONFERMA DELL'INCOMPATIBILITA' ANCHE TRA L'IMPIEGO PUBBLICO A PART TIME RIDOTTO E LA PROFESSIONE DI AVVOCATO.

L'art. 18 della legge di riforma forense, alla lettera c), consente di fare anche l'avvocato a tutte queste categorie di soggetti: al socio illimitatamente responsabile o all'amministratore di società di persone aventi quale finalità l'esercizio di attività di impresa commerciale, nonchè all'amministratore unico o consigliere delegato di società di capitali, anche in forma cooperativa, e al presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione, nei casi in cui l'oggetto della attività della società è limitato esclusivamente alla amministrazione di beni, personali o familiari, e nei casi in cui tali soggetti rivestano i ruoli in enti e consorzi pubblici, o in società a capitale interamente pubblico. Anche il Dossier n. 1/2013 dell'Ufficio studi del CNF riconosce: "Si evidenzia la novità per cui è consentita l'assunzione della qualità di amministratore unico, consigliere delegato e di presidente del CdA per le società c.d. familiari e per enti, consorzi e società a capitale intreramente pubblico".

Il medesimo art. 18 della l. 247/2012, alla lettera d), non consente, invece (secondo l'interpretazione che ne ha dato la sentenza delle SS.UU. 11833/13), che un semplice lavoratore dipendente pubblico a part time ridotto (neppure dirigente ma semplice impiegato tra il 30% e il 50% dell'orario ordinario, secondo l. 662/96, art. 1, commi 56 e ss.) possa fare anche l'avvocato; nemmeno se non ha nessun potere di rappresentanza del datore di lavoro pubblico e, invece, svolge un lavoro non particolarmente qualificato.

Ebbene, Corte cost. 171/99 insegna che un dipendente pubblico del genere non ha nessun obbligo nei confronti del datore di lavoro di lavorare presso di lui in esclusiva: ma di ciò non ha tenuto conto la l. 247/12. Ne è risultata una evidentemente irragionevole e discriminatoria incompatibilità che, come appare evidente se solo si rilegga la sentenza della Corte cost. 189/2001, non può fondarsi su (inesistente) necessità di preservare l'avvocato e i suoi clienti da rischi di conflitti di interesse, accaparramento di clientela e carenza di autonomia e indipendenza, intellettuale e tecnica.

Ma non basta.

Ben di più si può dire in tema di irragionevolezza e disparità ingiustificata di trattamento del dipendente pubblico a part time ridotto rispetto ai soggetti che possono essere iscritti all'albo forense ed esercitare la professione, per quanto dispone la lettera c), primo e secondo periodo, dell'art. 18 della l. 247/12.

Il primo periodo della lettera c) dell'art. 18. Esso esclude dall'incompatibilità talune situazioni prima ritenute (anche se non costantemente) fonti di incompatibilità: ritiene certamente compatibili con la professione forense le qualità e cariche in imprese e società diverse dalle qualità e cariche che elenca. Ad esempio ritiene compatibile con la professione di avvocato la qualità di membro di consiglio di amministrazione di una società. Ciò rende manifestamente irragionevole -se si vuol dare un contenuto serio e costante ai concetti di autonomia e indipendenza dell'avvocato- il qualificare, nel contempo, incompatibile un semplice impiegato pubblico a part time ridotto che non ha certo i poteri e non subisce certo i rischi di condizionamento di un membro del consiglio d'amministrazione d'una società.

Il secondo periodo della lettera c) dell'art. 18. E' evidente che i soggetti elencati nella lettera c), secondo periodo, dell'art. 18, non sono meno in grado di quanto non lo siano gli impiegati pubblici a part time ridotto di costituire "pericolo" per la prevenzione del conflitto di interessi dell'avvocato, per la prevenzione dell'accaparramento di clientela dell'avvocato, per la prevenzione della carenza di autonomia e indipendenza intellettuale e tecnica dell'avvocato. L'On. Di Pietro ha affermato nel suo intervento del 9 ottobre 2012 in Aula, sul progetto di legge di riforma forense: "...in precedenza è stata approvata ... un'incompatibilità che non sussiste se l'oggetto delle società riguarda enti, o consorzi pubblici, o società a capitale interamente pubblico. Vale a dire che, guardate il caso, uno che fa l'avvocato non può fare l'amministratore di una società privata, ma può fare l'avvocato e l'amministratore di società pubbliche. Tutti capiscono che dietro vi è poi chi li nomina e perché vengono nominati. Quindi là possono stare e fare anche l'avvocato....".

E ancora:

Evidente è l'irragionevolezza e la disparità ingiustificata di trattamento del dipendente pubblico a part time ridotto rispetto ai magistrati onorari (ad es. giudici di pace, vice procuratori onorari, giudici ausiliari, e si ricordino anche GOT e GOA) i quali sono ammessi a fare l'avvocato mentre, evidentemente, non sono meno in grado di quanto non lo siano i dipendenti pubblici a part time ridotto di costituire "pericolo" per la prevenzione del conflitto di interesse dell'avvocato, per la prevenzione dell'accaparramento di clientela dell'avvocato, per la prevenzione della carenza di autonomia e indipendenza intellettuale e tecnica dell'avvocato. L'On. Di Pietro ha affermato nel suo intervento del 9 ottobre 2012 in Aula, sul progetto di legge di riforma forense: "... chiediamo perché mai chi, invece di fare l'avvocato, svolge un ruolo di magistrato non togato può fare anche l'avvocato? Noi chiediamo che l'incompatibilità, visto che l'avete estesa a tante categorie, sia estesa anche a chi ha scelto di fare il magistrato non togato! Non è possibile che una persona il giorno pari fa l'avvocato e il giorno dispari fa il magistrato, specialmente se, addirittura, nello stesso luogo. Mi pare che tutto questo sia, sì, da rendere incompatibile!"

E ancora:

Evidente è l'irragionevolezza e disparità ingiustificata di trattamento del dipendente pubblico a part time ridotto rispetto ai parlamentari, ammessi, questi ultimi, a fare l'avvocato (essendo pure esentati dall'obbligo di formazione continua -ai sensi dell'art. 11, co 2, l. 247/12- e dall'obbligo dell'esercizio professionale in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente -ai sensi dell'art. 21, co 6, l. 247/12-) mentre, evidentemente, non sono meno in grado di quanto non lo siano i dipendenti pubblici a part time ridotto di costituire "pericolo" per la prevenzione del conflitto di interessi dell'avvocato, per la prevenzione dell'accaparramento di clientela dell'avvocato, per la prevenzione della carenza di autonomia e indipendenza intellettuale e tecnica dell'avvocato. L'On. Di Pietro ha affermato nel richiamato suo intervento del 9 ottobre 2012 in Aula: "... capisco che in quest'Aula non si vuole neanche ascoltare un emendamento di questo genere, ma sto parlando affinché resti nero su bianco in che cosa consiste l'emendamento in oggetto. Lo rileggo: «I membri del Parlamento non possono esercitare l'attività di avvocato per la durata del loro mandato». Vi invito a riflettere su cosa è successo in questi anni. Vi invito a riflettere sul fatto se sia possibile che in quest'Aula si fa il parlamentare, mentre fuori da quest'Aula si fa l'avvocato, e che in quest'Aula si fanno le leggi che servono all'avvocato stesso per difendere gli imputati di quest'Aula, fuori da quest'Aula! Questo è un tema politico grande come una casa che va affrontato e denunciato, in quest'Aula e fuori da quest'Aula! Assumetevi la responsabilità di quello che fate perché siamo stufi di vedere avvocati che si fanno qui le leggi che gli servono, per poi giustificarle e andarle ad usare, dopo, nei processi che servono ai loro clienti che stanno pure qui dentro!"

E ancora:

che dire dell'irragionevolezza e disparità ingiustificata di trattamento del prevedere, all'art. 18 l. 247/12, che "la professione di avvocato è incompatibile ... d) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato", e del prevedere nel contempo, all'art. 41, comma 12, una (sia pur limitata) ammissione del praticante avvocato ad "esercitare attività professionale in sostituzione dell'avvocato presso il quale svolge la pratica". Il praticante avvocato, che ai sensi del comma 4 dell'art. 41 può esser contemporaneamente lavoratore subordinato pubblico o privato (con ciò facendosi espressa eccezione alla previsione di cui all'art. 42 per cui "I praticanti osservano gli stessi doveri e norme deontologiche degli avvocati ..."), viene ammesso a patrocinare in sostituzione del dominus mentre nessuna, sia pur limitata, possibilità di esercitare la professione è consentita a chi l'esame d'avvocato l'ha superato ed è semplice impiegato pubblico a part time ridotto. Ciò è evidentemente irragionevole e discriminatorio, senza che ve ne sia necessità, nei confronti degli impiegati pubblici a part time ridotto che siano abilitati all'esercizio della professione forense. Sul punto, infine, occorre ricordare come Corte cost. 189/2001 abbia riconosciuto ampiamente sufficiente la limitazione che all'epoca si poneva al dipendente pubblico a part time ridotto che esercitasse anche la professione forense: il divieto, per detto avvocato-dipendente pubblico a part time ridotto, di patrocinare ove sia parte una qualsiasi pubblica amministrazione.

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I) ANCHE LE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE 299/2012 E 8/2013 CONFERMANO CHE LA REGOLAZIONE PROCONCORRENZIALE (APERTURA DEL MERCATO DEI SERVIZI PROFESSIONALI DI AVVOCATO) REALIZZATA CON LA ABROGAZIONE DELLA L. 339/03 AD AGOSTO 2012 E' CONFORME A COSTITUZIONE.

LA SENTENZA 299/2012, INOLTRE, IMPONE DI RITENERE CHE LA REINTRODUZIONE DELL'INCOMPATIBILITA' DI CUI ALL'ART. 18, LETTERA D, DELLA SUCCESSIVA L. 247/12 VIOLA L'ART. 117, COMMA 2, LETTERA E) DELLA COSTITUZIONE (OLTRE AD ESSER CONTRARIA AL DIRITTO U.E.). LO STESSO DICASI DELLA L. 339/03.

Scrive Corte cost. 299/12 al punto 6.1 del “Considerato in diritto”:

La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che la nozione di concorrenza di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis, sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007).

In questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenza n. 401 del 2007).

Come questa Corte ha più volte osservato, «Si tratta dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che costituisce una delle leve della politica economica statale e, pertanto, non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (sentenze n. 80 del 2006, n. 242 e n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004). ... In particolare, con riferimento alle misure di liberalizzazione, questa Corte ha avuto modo di affermare che «la liberalizzazione da intendersi come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale» (sentenza n. 200 del 2012)”.

Ebbene, con riguardo alla abrogazione della l. 339/03, realizzata "in ogni caso alla data del 13 agosto 2012" (ex art. 3, comma 5 bis, del d.l. 138/11, in relazione al comma 5, lettera a, del medesimo art. 3) si dovrà in primo luogo ritenere (quasi ripetendo le parole di Corte cost. 299/12) che l’intervento abrogativo del legislatore statale non incorre in nessuna illegittimità costituzionale. L'abrogazione della l. 339/03 (attraverso il comma 5-bis dell'art. 3 del d.l. 138/11 e attraverso l'art. 12 del DPR 137/12), infatti, attua un principio di liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti all'accesso e alle modalità di esercizio dell'attività economica d'avvocato (servizio naturalmente concorrenziale, come insegna Corte cost. 189/01). Detta abrogazione ha favorito, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato del servizio professionale d'avvocato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e ha ampliato la possibilità di scelta del consumatore-cliente.

L'abrogazione in questione, dunque, è stata una misura coerente con l’obiettivo di promuovere la concorrenza nel “settore chiave” delle professioni regolamentate, risultando proporzionata allo scopo di garantire l’assetto concorrenziale nel mercato di riferimento.

Inoltre (e sempre avendo presenti le parole di Corte cost. 299/12), si deve ricordare che, quando la Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale di norme introdotte a regolare attività economiche, le ha ritenute legittime solo nel caso in cui le norme introdotte non determinassero un vulnus alla «tutela della concorrenza» (sentenze n. 150 del 2011 e n. 288 del 2010). Ad esempio, in tema di commercio (ma ricordiamo che per Corte cost. 189/01 anche il servizio professionale di avvocato è sottoposto, come il commercio, alle regole in tema di tutela della concorrenza), nei casi in cui nuove norme regionali sottoposte all'esame della Corte avevano introdotto una disciplina più favorevole rispetto a quella statale (nel senso della liberalizzazione degli orari e delle giornate di chiusura obbligatoria), esse sono state ritenute legittime (sentenza n. 288 del 2010); viceversa, allorché si è riscontrata una disciplina di segno contrario, ne è seguita una pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenza n. 150 del 2011).

Richiamando il ragionamento seguito anche da Corte cost. 8/2013 (punto 4.1 del “considerato in diritto”) può dirsi che, vista nel suo insieme, l'operazione d'abrogazione della l. 339/03 ad opera del d.l. 138/11 (art. 3, comma 5-bis e ad opera del DPR 137/12, art. 2 e 12), “si colloca nel solco di un’evoluzione normativa diretta ad attuare «il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale» (sentenza n. 200 del 2012). Tale intervento normativo, conformemente ai principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte, «prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale» e con gli altri principi costituzionali (sentenza n. 200 del 2012)”.

In tale quadro, si deve ritenere che l'abrogazione della l. 339/03 in forza del d.l. 138/11 e del DPR 137/12: a) deve essere inquadrata nell’ambito della materia «tutela della concorrenza» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione; b) realizza una condizione essenziale ed imprescindibile per garantire l’assetto concorrenziale nel mercato dei servizi professionali (compreso il servizio professionale di avvocato), rimuovendo i residui profili di contrasto della disciplina di settore con il principio della libera concorrenza (vedasi anche Corte cost. n. 430 del 2007).

MA NON BASTA. Se così è, appare evidente che l'art. 18, lettera d), della l. 247/12, che prevede la reintroduzione dell'incompatibilità tra l'attività dipendente di impiegato pubblico a part time ridotto e l'esercizio della professione forense, è incostituzionale per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione.

La Corte costituzionale potrà esser chiamata dalle SS.UU. a decidere della costituzionalità della riferita reintroduzione di incompatibilità e di certo la q.l.c. potrà ritenersi fondata poichè non può dubitarsi che la reintroduzione della detta incompatibilità ostacola la concorrenza, invece di favorirla.

Basti ricordare che, secondo la sentenza 299/12 della Corte costituzionale: “Compito della Corte è, quindi, quello di valutare se le misure sottoposte al suo vaglio, che disciplinano o ridisciplinano importanti aspetti di regolazione del mercato, stabilendo nuovi criteri per il suo funzionamento, possiedano i requisiti per essere qualificate come normative che favoriscono la concorrenza.”

Peraltro, se non si ritenesse (seguendo SS.UU. 11833/12) che la l. 339/03 sia stata abrogata ad agosto 2012, dovrebbe essere essa legge 339/03 l'oggetto di q.l.c. per reintroduzione (dopo la permissiva previsione dell'art. 1, co 56 e ss. della l. 662/1996) d'una incompatibilità non consentita dall'art. 117, co 2, lettera e, della Costituzione.

Quanto sopra ovviamente non esclude che, preliminarmente alla proposizione di q.l.c., le SS.UU. possano ritenere che l'art. 18, lettera d, della l. 247/12, entrata in vigore il 2 febbraio 2013, reintroducendo l'incompatibilità tra avvocatura e attività di lavoro dipendente a part time ridotto, appena dopo pochi mesi dalla sua abrogazione nell'agosto 2012, e con ciò riducendo la concorrenza nel mercato dei servizi professionali di avvocato senza esigenze imperative di interesse generale che possano giustificarlo (vedasi sentenza Wouters della Corte di giustizia) debba essere disapplicato per contrasto col diritto dell'Unione e che, qualora di ciò le SS.UU. dubitino, debba esser proposto quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia.

Parallelamente -se non si ritenesse (seguendo SS.UU. 11833/12) che la l. 339/03 sia stata abrogata ad agosto 2012- la disapplicazione per contrasto col diritto dell'Unione Europea o la proposizione di questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia potrebbero riguardare la l. 339/03.

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