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Lo chiarisce la sentenza del TAR Lazio n. 2499/2016.

Il ricorrente ha reclamato la condanna del resistente Ministero della giustizia al risarcimento dei danni morali per i dispiaceri e le sofferenze e dei danni non patrimoniali per la lesione della dignità, dell’onore e del prestigio professionale, subiti dal medesimo a causa dell’illegittimo provvedimento di revoca dall’incarico di giudice onorario aggregato.

Il ricorrente medesimo, mentre svolgeva le funzioni di giudice di pace aggregato presso il Tribunale di Bergamo, è stato destinatario di un provvedimento adottato dal Ministro di giustizia, su deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura, recante la revoca dall’incarico in quanto considerato responsabile di una mancata astensione e per avere incardinato ricorsi in qualità di avvocato nel medesimo circondario ove esercitava la funzione giudicante, condotte, queste, dedotte da risultanze istruttorie ritenute univoche e valutate come lesive del prestigio dell’ordine giudiziario.

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 N. 02499/2016 REG.PROV.COLL.

N. 06134/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6134 del 2014, proposto da: F. F., rappresentato e difeso dall'avv. F. F., con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. U. L. in Roma, Via ...;

contro

Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro p. t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

per l'accertamento

del diritto al risarcimento dei danni morali e dei danni non patrimoniali subiti dal ricorrente, con rivalutazione monetaria e interessi legali dalla data della delibera del CSM del 17/9/2004;

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2015 il Cons. Donatella Scala e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

Premette il ricorrente, già Giudice Onorario Aggregato alle Sezioni Stralcio dei Tribunali di Catania, Torino e Bergamo a seguito di superamento di concorso per titoli, di avere ricevuto in data 4 ottobre 2004 la notifica del decreto del Ministro della Giustizia con cui, sulla base di una delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, veniva irrogata al medesimo la misura della revoca dell’incarico di giudice di pace a far data dal 24 marzo 2004.

Sottolinea come l’esecuzione della notifica, nel mentre era in udienza con numerosi avvocati, lo abbia profondamente offeso, umiliato e addolorato, essendo stato costretto a interrompere i processi, riconsegnare i fascicoli già trattenuti per la decisione e a lasciare la sede con disservizio e scontento dei difensori, clamor fori, diffamazione e lesione della sua dignità di professionista e di immagine sociale, nonché umana sofferenza.

Ricorda, poi, che il Tar Lazio, decidendo il ricorso dal medesimo proposto, ha annullato la delibera del C.S.M. con la sentenza n. 4393 del 2007, successivamente confermata dal Consiglio di Stato, con la decisione n. 4608 del 2009.

Riferisce che, sulla base del giudicato formatosi in ordine alla illegittimità della irrogata sanzione disciplinare, ha chiesto alla Sezione Lavoro del Tribunale di Brescia il risarcimento dei danni non patrimoniali e morali, quantificandoli in misura simbolica in euro 500,00, per le sofferenze patite e per la lesione del decoro personale e di professionista subita a causa della illegittima revoca ad opera del Ministro della Giustizia ma che il giudice ordinario, in accoglimento di specifica eccezione sollevata dalla difesa erariale, ha dichiarato il difetto di giurisdizione e lo ha condannato alle spese del giudizio, liquidate in euro 5.000,00.

Con il ricorso in epigrafe, pertanto, ha riproposto l’azione risarcitoria innanzi al giudice dichiarato competente a decidere, assumendo l’indiscutibilità sull’an debeatur, basandosi la richiesta risarcitoria su pronuncia del Consiglio di Stato, passata in giudicato, che, riconoscendo che il ricorrente “non aveva fatto altro che esercitare la sua professione nei limiti previsti dalla legge” ha statuito l’illiceità della delibera di revoca della nomina di magistrato onorario. Argomenta, quindi, che la domanda di risarcimento dei danni morali e non patrimoniale trova fondamento sulla responsabilità aquiliana ex art. 2043 e art. 2059, per essere stato illegittimamente radiato dalla magistratura con offensiva e infamante accusa di avere irrimediabilmente leso il prestigio dell’ordine giudiziario e, vieppiù, per non essere stato prontamente reintegrato nelle sue funzioni, non avendo il Ministero intimato ottemperato all’ordinanza di sospensione emessa dal Tar Lazio il 26 gennaio 2005. Sottolinea, poi, la lesione della dignità, dell’onore e del prestigio del professionista, magistrato e avvocato, conosciuto a livello nazionale anche quale scrittore di testi giuridici, per essere stato vittima del clamor fori e della pubblicità conseguente alla pubblicazione della revoca per indegnità nel Bollettino Ufficiale del Ministero della Giustizia. Conclude il ricorrente chiedendo anche il risarcimento del danno morale per il dolore patito a seguito della improvvisa ricezione del provvedimento di revoca.

Si è costituita in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato che, per resistere al ricorso, ha eccepito l’infondatezza delle istanze introdotte con lo stesso, per non essere stata provata la sussistenza degli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno né potendosi ravvisare nel caso de quo gli estremi dell’illecito aquiliano.

Alla pubblica udienza del 17 dicembre 2015 la causa è stata trattata in pubblica udienza e il Collegio l’ha trattenuta a sentenza.

DIRITTO

Con il ricorso in esame il ricorrente reclama la condanna del resistente Ministero della giustizia al risarcimento dei danni morali per i dispiaceri e le sofferenze e dei danni non patrimoniali per la lesione della dignità, dell’onore e del prestigio professionale, subiti dal medesimo a causa dell’illegittimo provvedimento di revoca dall’incarico di giudice onorario aggregato, con rivalutazione monetaria e interessi legali dalla data della delibera del CSM.

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

Come accennato in narrativa, il ricorrente, che svolgeva le funzioni di giudice di pace aggregato presso il Tribunale di Bergamo, è stato destinatario di un provvedimento adottato dal Ministro di giustizia, su deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura, recante la revoca dall’incarico in quanto considerato responsabile di una mancata astensione e per avere incardinato ricorsi in qualità di avvocato nel medesimo circondario ove esercitava la funzione giudicante, condotte, queste, dedotte da risultanze istruttorie ritenute univoche e valutate come lesive del prestigio dell’ordine giudiziario.

Il Collegio ritiene di precisare, a questo punto, quale sia l’indagine che deve essere condotta al fine di valutare l’ammissibilità prima, e la fondatezza, poi, della istanza introdotta, non essendo sufficiente, a tali fini, il mero annullamento del provvedimento amministrativo, ma dovendo accertarsi la sussistenza di tutti gli elementi giuridicamente rilevanti perché possa addivenirsi alla affermazione della responsabilità aquiliana dell’amministrazione.

E’ utile, in proposito, ricordare l’approdo ormai consolidato della giurisprudenza amministrativa circa i requisiti di ammissibilità della domanda di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo provocato dalla P.A., atteso che, posta la necessità del previo annullamento dell’atto illegittimo, è altresì necessario che sia configurabile la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa, dovendo verificarsi se l'adozione e l'esecuzione dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona fede alle quali l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato. Quindi, l'ingiustizia del danno non può considerarsi in re ipsa nella sola illegittimità dell'esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo il giudice procedere a verificare e giudicare: i) che sussista un evento dannoso; ii) che il danno sia qualificabile come ingiusto in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l'ordinamento; iii) che l'evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, ad una condotta della Pubblica amministrazione; iv) che l'evento dannoso sia imputabile a responsabilità della stessa anche sotto il profilo soggettivo del dolo o della colpa; v) e che la responsabilità possa e debba essere negata quando l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (da ultimo, cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 21/09/2015, n. 4375; sez. III, 23/11/2015, n. 5307)

Quanto ai primi tre aspetti, precisa il Collegio che dalla ricostruzione dei fatti come proposta da parte ricorrente, avverso cui nulla è stato addotto dalla difesa della resistente Amministrazione, emergono gli elementi di prova circa gli elementi oggetto della domanda di risarcimento che devono essere considerati idonei in ragione della chiara prescrizione di cui all'art. 64, comma 2, del c.p.a.

E, pertanto, provato che la sfera giuridica del ricorrente ha subito una ingiusta lesione, essendosi visto revocare per mezzo di un provvedimento illegittimo della competente Amministrazione della giustizia l’incarico di giudice onorario, la cui rilevanza per l’ordinamento giuridico è notevole, attesa la funzione di affiancamento a quella giudiziaria ordinaria con finalità di definizione del contenzioso civile pendente.

Occorre, ora, stabilire, attesa la presenza del nesso causale tra evento dannoso e attività della p.a., anche la sussistenza della imputabilità, sotto il profilo soggettivo, a responsabilità per dolo o colpa dell’amministrazione, per violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa (c.d. colpa di apparato).

Soccorre, in proposito, la motivazione resa nei due gradi giudizio che hanno conclamato l’illegittimità della revoca.

In particolare, il giudice di prime cure ha rilevato, in ordine al primo appunto mosso al ricorrente (mancata osservanza dell’obbligo di astensione in una controversia in cui era coinvolto quale difensore di una delle parti un avvocato controparte dello stesso in altra controversia pendente in Cassazione), che tra i presupposti di fatto (quanto a estremi per ritenere la sussistenza di obbligo di astensione ex art. 51 c.p.c.) e conclusioni tratte vi sia stato un salto logico in punto dimostrazione della incapacità o comunque non volontà del ricorrente di tenere distinti i ruoli di avvocato e magistrato onorario, tenuto conto che nel caso de quo, in cui non sussisteva senz’altro un regime di incompatibilità fra i due ruoli espletati in giudizi distinti, è mancata la valutazione della peculiarità ovvero della legittimità della condotta osservata, limitandosi il CSM a recepire acriticamente l’ordinanza di ricusazione emessa dal tribunale di Torino e senza considerare l’orientamento opposto alla irrogazione di una sanzione espresso dal Consiglio giudiziario integrato di Torino e, infine, per non avere riscontrato la memoria difensiva prodotta in sede di controdeduzioni dal ricorrente, circa l’insussistenza dei presupposti in senso assoluto di un obbligo di astensione e in concreto, per essere altro il difensore avversario nel giudizio in Cassazione.

Ancora, quanto al secondo rilievo mosso al ricorrente (per avere egli avanzato in qualità di avvocato ricorso ai sensi della legge Pinto presso la Corte di Appello di Milano per lentezze processuali verificatesi nel circondario di Torino ove esercitava la funzione di giudice onorario aggregato e di cui era evidentemente venuto a conoscenza grazie all’esercizio di tale ruolo), il giudice ha rilevato l’assenza di alcuna prova circa una condotta (utilizzazione di dati o informazioni ricavati dalla sua attività di giudice onorario), che ove pacificamente emersa avrebbe avuto ben altro rilievo, rimanendo pertanto a livello di mera enunciazione, e, per altro verso, ha rilevata la mancata confutazione da parte dell’organo riguardanti la concreta estraneità della causa (in relazione a cui era stato promosso ricorso ex legge Pinto) alla sfera di competenza attribuita alle Sezioni Stralcio. La sentenza del tar Lazio ha superato il vaglio del giudice di appello che ha confermato l’illegittimità della delibera del CSM assunta sulla base di un erroneo assunto di fatto, nonostante che il ricorrente in sede difensiva avesse evidenziato tale particolare, cui nessuna considerazione è stata invece riservata, e, comunque, carente in punto motivazione circa la rilevanza dei fatti contestati; il Consiglio di Stato, poi, ha ritenuto del tutto errato il rilievo mosso al ricorrente circa l’incapacità di tenere distinti i ruoli di avvocato e magistrato onorario, considerando che l’attività contestagli costituiva, in realtà, l’esercizio della sua professione nei limiti consentiti dalla legge e ha sottolineato la mancanza di alcun riscontro alla contestazione mossa di “conoscenza qualificata” e alcuna confutazione circa la concreta estraneità delle cause per cui era stato proposto ricorso per invocare l’applicazione della legge Pinto alla sfera di competenza attribuita dalla legge alle Sezioni Stralcio, che, invece hanno costituito il presupposto (rimasto, però, indimostrato) della condotta ritenuta lesiva del prestigio dell’ordine giudiziario.

Questa veloce sintesi delle motivazioni delle due decisioni recanti l’annullamento della delibera evidenziano che non solo la motivazione reca evidenti lacune in punto coerenza tra presupposti e conclusioni, ma che la stessa attività istruttoria posta a base della adozione del provvedimento conclusivo è stata sommaria e superficiale, soprattutto perché non sono stati tenuti nella minima considerazione gli apporti partecipativi offerti dal soggetto interessato, ritenendo, invece, di valorizzare presunti comportamenti scorretti manifestati dal ricorrente che in sede giudiziale si sono rivelati del tutto insussistenti e, dunque, erroneamente assunti a fondamento dell’attività sanzionatoria.

Ritiene, a questo punto, il Collegio di precisare che il giudice ha annullato il ridetto provvedimento di revoca, non perché abbia ritenuto di sovrapporre alla valutazione effettuata dal CSM la propria, ma perché è emersa la carenza dei presupposti in fatto che soli avrebbero giustificato l’esercizio del potere, ferma poi l’insindacabilità delle scelte cui tali presupposti, ove esistenti, (mancata doverosa astensione; utilizzazione di informazioni rilevate per l’ufficio per proprie finalità di esercizio dell’attività forense) avrebbero potuto condurre.

Ed invero, alla stregua del rapporto che lega i giudici onorari con l’amministrazione della giustizia di carattere strettamente personale, alla seconda è conseguentemente attribuito un potere discrezionale ampio nella valutazione della prosecuzione, o meno dell’incarico, in relazione alle vicende che coinvolgono il servizio svolto da questo giudice che ha natura fisiologicamente precario; in tale materia, pertanto, il canone della condotta amministrativa giudicata è costruito in modo tale da affidare all'autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, cui fa pur sempre da contraltare la necessità che il potere sia esercitato in modo razionale e non illogico, in coerenza con le finalità al cui presidio si pone lo stesso, di tutela dell’ordinamento giudiziario.

Il Collegio non può, allora, convenire con la difesa erariale che ha cercato di dimostrare come nel caso de quo difettasse il carattere “manifesto e grave della violazione” nello svolgimento di una attività cui è correlato una ampio margine di discrezionalità.

Ritiene il Collegio che la discrezionalità, pure ampia, che connota il potere valutativo del CSM, non lo esonera dal rispetto dei tradizionali limiti esterni della discrezionalità e dei principi generali dell'agire amministrativo, la cui violazione integra, invece, la "colpa di apparato".

Dunque, in tale ambito, non solo non è precluso il vaglio giurisdizionale della legittimità dell’esercizio del potere, finalizzato alla espulsione dall’ordinamento giuridico di atti illegittimi, ma nemmeno viene meno la possibilità di accertare, ai fini risarcitori, la sussistenza della colpa, specie ove sia emerso in modo inequivocabile che questo è stato esercitato in evidente violazione delle regole di correttezza e di proporzionalità.

Nel caso che ne occupa, la lettura delle decisioni che hanno univocamente condotto all’annullamento della delibera evidenzia non solo la sussistenza di vizi motivazionali, ma soprattutto l’esistenza di vizi sostanziali riconducibili alla colposa violazione delle regole di correttezza, imparzialità, buona fede, oltre che di ragionevolezza e proporzionalità, per essere stata disposta la revoca dall’incarico senza avere accertato rigorosamente i comportamenti scorretti asseritamente posti in essere dal ricorrente.

Non può ritenersi, invero, scevra da colpa la decisione assunta dal CSM comportante una così grave determinazione (cessazione dall’incarico di giudice onorario), senza che a ciò abbia fatto da contrappunto un rigoroso accertamento dei fatti oltre che una accurata analisi delle stesse risultanze istruttorie, attività queste che, ove svolte, non avrebbero che potuto condurre alla archiviazione della richiesta, come, peraltro, proposto dallo stesso Consiglio giudiziario e come riconosciuto dal giudice amministrativo.

La domanda è dunque ammissibile, ed è altresì fondata, tenuto conto delle conseguenze scaturite dalla non solo illegittima, ma anche colposa attività dell’Amministrazione.

Come sopra accennato, in conseguenza dell’illegittima revoca dell’incarico il ricorrente, non solo ha dovuto cessare immediatamente dalle funzioni fino a quel momento svolte, con ogni conseguenza anche sotto il profilo del clamore in ambito locale, ma ha patito anche conseguenze di natura non patrimoniale e morale, per l’incisione della sua sfera personale e professionale e per le sofferenze causate al medesimo a cagione di una motivazione (sotto il profilo della ritenuta irrimediabile lesione del prestigio dell’ordine giudiziario) recata nel provvedimento adottato su presupposti errati, particolarmente infamante per un professionista qualificato dall’esercizio oltre che dell’attività forense, anche di quella di studioso del diritto e di giudice onorario.

Sui presupposti necessari per il riconoscimento del danno c.d. esistenziale, il giudice di appello ha enucleato alcuni principi cui questo giudice intende uniformarsi.

E’ stato, invero, affermato che: “l'art. 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme a Costituzione, prevede una categoria unitaria di danno non patrimoniale per lesione di interessi, inerenti la persona, non connotati da rilevanza economica, in cui rientrano sia il danno alla salute in senso stretto, cd. biologico, sia quello di tipo cd. esistenziale, intesi come tipologie descrittive e non strutturali; è indubbio che, ai fini della sua risarcibilità, tale danno deve essere allegato e provato tanto nella sussistenza che nel nesso eziologico. In particolare, si ammette, quanto al danno propriamente biologico, che il verificarsi della menomazione della integrità psico-fisica della persona possa essere accertato facendo ricorso alle presunzioni e che la sua quantificazione possa avvenire in via equitativa, occorrendo tuttavia che la motivazione indichi gli elementi di fatto i quali, nel caso concreto sono stati tenuti presenti e i criteri adottati nella liquidazione equitativa. Quanto al danno esistenziale, a maggior ragione si ammette il ricorso a presunzioni, trattandosi di pregiudizio ad un bene immateriale, diverso dal biologico e consistente nel danno, di natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile, arrecato alle attività non remunerative del soggetto passivo, costretto ad alterare le proprie abitudini ed i propri assetti relazionali ed a sottostare a scelte di vita diverse dalle precedenti in ordine alla espressione ed alla realizzazione della sua personalità anche nel mondo esterno. Quanto alle presunzioni, esse vanno intese nel senso tecnico di presunzioni semplici e non assolute, ossia di "conseguenze che...il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato (art. 2227 c.c.), che sono lasciate alla "prudenza del giudice" stesso "il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti" (art. 2729 c.c.), e che non costituiscono, nella gerarchia dei mezzi di prova, uno strumento di rango secondario rispetto alla prova diretta o rappresentativa, valendo sostanzialmente, come la presunzione legale, a facilitare l'assolvimento dell'onere della prova da parte di chi ne è onerato mediante trasferimento sulla controparte dell'onere della prova contraria. Ne consegue che il convincimento del giudice può ben fondarsi anche su di una sola presunzione, purché grave e precisa, e non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta e di esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo regole di esperienza” (cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 906).

Sulla base di tali coordinate, ritiene il Collegio che il ricorrente abbia sufficientemente argomentato in merito alla produzione del danno non patrimoniale e morale, atteso che la revoca dell’incarico di giudice onorario ha senz’altro comportato la perdita di prestigio e decoro professionale nell’ambiente in cui il medesimo non solo svolgeva il detto incarico, ma anche la professione forense, riveniente dalla repentina perdita di una posizione per una così grave motivazione, riverberatasi, altresì, nella frustrazione delle proprie aspettative in ordine alla prosecuzione dell’incarico per l’intero arco temporale previsto dalla legge.

E’, dunque, rilevante ai fini risarcitori il pregiudizio patito dal ricorrente dal punto di vista personale conseguente all’ingiusta prematura espulsione dall’ordine giudiziario, tenuto, altresì, conto del danno all’immagine, all’onore e prestigio del professionista che ne è derivato.

Quanto alla valutazione del quantum del danno non patrimoniale e morale da risarcire, ritiene il Collegio che questo possa essere determinato in via equitativa in complessivi euro 1.000,00, tenuto conto sia del profilo colposo della condotta osservata oltre che del valore simbolico richiesto a tale titolo dal ricorrente (euro 500,00).

Trattandosi di debito di valore, la somma così quantificata deve essere rivalutata secondo indici Istat dalla data del decreto del Ministro della giustizia recante la revoca dall’incarico (21 settembre 2004) fino alla data di pubblicazione della presente sentenza, e su di essa, progressivamente rivalutata giorno per giorno, corrono interessi legali dal dovuto al saldo.

Quanto alle spese del giudizio, queste seguono la soccombenza, per cui in dispositivo sono indicate entrambe le liquidazioni.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima Quater, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, condanna il resistente Ministero della Giustizia al pagamento in favore del ricorrente, della somma di euro 1.000,00 (euro mille/00), a titolo di risarcimento del danno, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali, come per legge.

Condanna, altresì, il Ministero della Giustizia a rifondere le spese del giudizio pure in favore del ricorrente, liquidate forfetariamente in euro 1.500,00 (euro millecinquecento/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2015 con l'intervento dei magistrati:

Elia Orciuolo, Presidente

Donatella Scala, Consigliere, Estensore

Anna Bottiglieri, Consigliere
   
   
L'ESTENSORE  IL PRESIDENTE
  
DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 23/02/2016

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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Il fatto che un uomo si immoli per un'idea non prova punto che essa sia vera (O. Wilde)