LA CORRETTA DEFINIZIONE DI INDIPENDENZA DELL'AVVOCATO E' CONCETTO BASE PER L'INDIVIDUAZIONE DI CAUSE DI INCOMPATIBILITA' “PROPORZIONATE” (OLTRE CHE -COME SI VEDRA'- PER L'INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI DA AMMETTERE A FORNIRE CONSULENZA LEGALE IN FORMA PROFESSIONALE).
Ci si deve domandare, innanzitutto: gli avvocati possono essere e devono essere superuomini indipendenti da tutti e da tutto?
O, invece, l'indipendenza dell'avvocato è, e non può non essere, solo un mito, una "araba fenice" per la quale deve dirsi, come della fede degli amanti, "che vi sia ciascun lo dice ove sia nessun lo sa"?
Oppure è possibile una terza via, che escluda definizioni tanto altisonanti quanto vuote di contenuto giuridico e praticamente tali da consentire ai furbi di evitare ogni sanzione e da consentire, nel contempo (a eventuali malintenzionati eletti al Consiglio dell'Ordine locale o al Consiglio Nazionale Forense -può succedere!!!-) di sanzionare troppo facilmente l'avvocato soggetto al potere disciplinare?
E, inoltre, è pensabile riuscire a organizzare un sistema di controllo della "indipendenza" di più di 200.000 soggetti iscritti negli albi degli avvocati anche se della “indipendenza” si da una definizione più ampia del mero “esercizio della professione con modalità diverse da quelle che secondo i giuslavoristi determinano un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato”?
A queste domande non si può rispondere se non si chiarisce quale "indipendenza" serve per un migliore avvocato.
L'indipendenza, infatti, è una categoria dello spirito e perciò il rischio che le parole "indipendenza", "dipendente", "autonomo", vengano usate strumentalmente (per fini tutt'altro che alti) è elevato.
In sintesi: secondo me non si può volere per legge che l'avvocato sia indipendente, se non nel limitato senso che egli non debba esercitare la professione quale lavoratore subordinato di altri soggetti (individui o enti <esclusi gli enti pubblici>).
Deve, corrispondentemente, aversi il coraggio di dirsi in faccia quale destino debbano avere i circa 30.000 avvocati oggi in sostanza parasubordinati di altri avvocati. SE SI VUOLE ESSERE RIGOROSI COSTORO DEVONO ESSERE I PRIMI AD ESSERE CANCELLATI DAGLI ALBI. ALTRIMENTI NON E' PENSABILE GIUSTIFICARE TANTE ALTRE INCOMPATIBILITA' (O SI SCHERZA E BASTA?).
Deve consentirsi, invece, all'avvocato anche di instaurare qualsiasi rapporto giuridico patrimoniale diverso da quelli correlati all'esercizio della sua professione (ad es. l'avvocato deve poter svolgere lavori ulteriori rispetto a quello di avvocato o deve poter gestire imprese): tali ulteriori rapporti patrimoniali, infatti, non possono far sorgere, di per se e sempre, il ragionevole dubbio sulla sua dedizione alla fedele cura dell'interesse del cliente. Certo costui deve esser tutelato dall'eventualità che l'avvocato sia in concreto in conflitto di interessi con lui, ma la vera tutela del cliente non può essere l'illusoria costituzione d'una casta di avvocati-sacerdoti, votati all'indipendenza (pur se stranamente capaci di concepire il decoro della loro professione come esito anche della retribuzione), bensì la previsione d'una assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dell'avvocato, assieme alla strutturazione di Autorità di controllo dell'operato concreto dell'avvocato, composte solo in minoranza da avvocati e dotate di sufficienti mezzi economici per un controllo serio. L'incompatibilità come criterio prudenziale “a monte” deve esser limitatissima.
La scelta di costituire per legge una casta di avvocati-sacerdoti dell'indipendenza da tutto e da tutti è contro la Costituzione, ma soprattutto è impresa impossibile e sbagliata.
E' impresa impossibile perchè ove si tenti di realizzarla si incappa inevitabilmente nell'inadeguatezza dei sistemi di controllo d'una indipendenza diversamente intesa rispetto al limitato senso sopra indicato. Ai controlli sull'indipendenza “ampiamente intesa” lo scaltro avvocato può agevolmente sottrarsi.
E' impresa sbagliata perchè l'instaurazione di rapporti giuridici patrimoniali (ad es. secondi lavori o attività d'amministrazione all'interno dei consigli d'amministrazione di società di capitali) è solo una delle possibili fonti del ragionevole dubbio sull'indipendenza mentre le numerose altre fonti del medesimo dubbio (rapporti personali, convinzioni religiose, politiche, ecc...) non possono certo esser valutate negativamente quali ostacoli all'esercizio della professione in termini di incompatibilità. Per dirla da avvocato: l'argomento secondo cui il cliente è tutelato bene solo da un avvocato “indipendente in senso ampio” è un argomento che prova troppo.
Tutt'altra cosa rispetto alla illusoria e liberticida prevenzione dei conflitti di interesse attraverso incompatibilità non necessarie è, evidentemente, stabilire di sanzioni per i casi di conflitti di interesse in concreto, da verificare e sanzionare con riguardo a singoli momenti dell'attività professionale dell'avvocato (lasciando, dunque, al vigile interesse dei clienti e al serio controllo di Consigli degli Ordini -che siano composti in modo da essere veramente "terzi"- la verifica che in concreto, nei singoli casi, l'avvocato non sia in conflitto di interesse con quel singolo cliente).
In particolare, se vi è contrasto tra, da una parte, i diritti fondamentali nonchè di libertà sanciti dagli artt. 2, 3, 4, 35, 41 della Costituzione (che sono confermati, come diritto alla concorrenza, dall'art. 117 Cost.), i quali consentono anche di lavorare come avvocato pur se si hanno ulteriori interessi umani e di rilievo economico (sembra assurdo doverlo reclamare!!!), e, dall'altra parte, il valore dell'indipendenza dell'avvocato che venga previsto (male intendendolo, come dovere che comporta incompatibilità tra esercizio della professione e altro lavoro dipendente) solo nella legge ordinaria che regola la professione forense e nel codice deontologico forense, quali devono prevalere? Nel bilanciamento tra i valori, alcuni dei quali sono tutelati espressamente dalla Costituzione mentre altri sono espressi in leggi ordinarie, quali prevalgono?
La risposta non può che essere che, nel caso di contrasto, devono prevalere i primi.
Il contrasto cui si è accennato tra norme costituzionali e leggi ordinarie si è posto, in realtà, in un limitato numero di casi (alcuni però gravi, come quello dei c.d. “avvocati-part-time, assurdamente penalizzati dalla l. 339/03) per il semplice fatto che il sistema disegnato dalla legge ordinaria con riguardo alle compatibilità e alle incompatibilità nell'esercizio della professione d'avvocato si ispira alla massima possibile tutela della libertà del singolo d'esercitare la professione (ad esempio è compatible essere avvocato e giudice di pace; o avvocato e V.P.O.; o avvocato e sottosegretario di Stato ecc...). Il TAR Lazio, sez. I, nell'ordinanza di rimessione in Corte costituzionale n. 10125 del 28/4/2004 (che si riferiva, in particolare, alle compatibilità e incompatibilità previste per il giudice di pace-avvocato) afferma a tal proposito che il quadro ordinamentale legislativo è "ispirato all'esigenza del minimo sacrificio delle opportunità professionali".
Ma col ddl di riforma forense si vorrebbero porre nuove incompatibilità: disposizioni che, assurdamente, contraddicono il sistema improntato (in linea con Corte cost. 189/01) alla massima libertà d'esercizio della professione e ledono diritti di libertà.
Si deve perciò individuare la soluzione costituzionalmente imposta.
A mio parere si dovrà pervenire alla declaratoria di incostituzionalità delle norme della legge professionale forense e del codice deontologico che, per realizzare la massima tutela possibile dell'indipendenza dell'avvocato, prevedono cause di incompatibilità con l'esercizio della professione le quali limitano quei diritti costituzionalmente garantiti.
La Costituzione, infatti, quando ha voluto tutelare l'indipendenza (e l'imparzialità) d'una categoria di soggetti più che i loro diritti fondamentali di libertà l'ha espressamente disposto. Così ha fatto la Costituzione con riguardo ai magistrati, agli art. 101 comma 2, 104 comma 1, 98 comma 3. Evidentemente, però, non ha fatto altrettanto con riguardo agli avvocati. Per essi non si può certo affermare che l'art. 24 Cost. abbia consentito che una legge ordinaria limiti i diritti di libertà di lavoro professionale (riassumibili nella libertà di essere ammessi al lavoro di avvocato dopo aver superato l'esame di stato, che è l'unica condizione espressa in Costituzione per l'accesso alla professione forense) degli avvocati o degli aspiranti tali, pervenendo ad un sacrificio di tali diritti non ragionevole e non proporzionato per la realizzazione del bene mitico dell'indipendenza dell'avvocato.
Il contenuto del diritto di difesa di cui alll'art. 24 della Costituzione è quello chiarito da Corte cost. 182/08 (e ribadito dalla Corte costituzionale nel 2009) e non può estendersi (a vantaggio del ceto forense) addirittura oltre la portata di quelle disposizioni esplicite della Costituzione che sono state dettate al fine di consentire alla legge ordinaria di limitare i diritti di libertà solo dei magistrati e di altre categorie di funzionari pubblici espressamente elencate.
E infatti l'art. 98 Cost. consente di "limitare" per legge, per i soli magistrati e le altre categorie di funzionari pubblici espressamente elencate, la facoltà iscriversi ai partiti, mentre la legge professionale forense (in ciò incostituzionale), così come il ddl di riforma forense ora all’esame del Parlamento individua addirittura incompatibilità assolute che radicalmente precludono -e non limitano- l'accesso alla professione (che è diritto di libertà al pari di quello di iscriversi a un partito).
Ai magistrati e non anche agli avvocati la Costituzione riconosce speciali doveri: devono essere e sembrare imparziali e indipendenti (art. 101 comma 2, e art. 104 comma 1) non solo nell'esercizio delle funzioni ma pure in ogni comportamento extrafunzionale, e ciò perchè l'esercizio della funzione giudiziaria dello Stato impone di tenere condotte tali che neppure si possa dubitare della loro indipendenza e imparzialità. Per i magistrati si giustificano così i limiti posti per legge ordinaria ai diritti di libertà. Non per gli avvocati.
A proposito poi dell'indipendenza dell'avvocato, bene tanto mitizzato quanto non definito (e, come si diceva, vera e propria araba fenice in una realtà sociale che sta progressivamente realizzando la c.d. proletarizzazione dell'ex ceto forense anche attraverso la diffusissima pratica della dissimulazione del lavoro subordinato di avvocato), come mai la proposta di riforma della professione forense "targata" CNF e oggi all'esame del Senato non tratta neppure del rapporto di lavoro dipendente di avvocato rispetto ad altro avvocato?
Non sbaglia Alessandro De Nicola quando, in un articolo su ilsole24ore del 17/4/2010, dal titolo "Il gran disordine degli Ordini", evidenzia l'iillogicità degli argomenti che si suole prospettare per mantenere ancora, nella regolazione italiana della professione forense, il vincolo dell'indipendenza. Scrive De Nicola, nel trattare della netta contrarietà degli organismi rappresentativi dell'avvocatura (più o meno unitari) alla possibilità di costituire studi legali in forma di società di capitali: "Società di capitali. Altro tabù della nostra classe forense. Ebbene, in Inghilterra gli studi legali si quoteranno, in Australia lo fanno già. Raccoglieranno capitale e si doteranno di mezzi tali da spappolare gli studi italiani costretti a ricorrere al credito bancario e a rimanere sottocapitalizzati. Incidentalmente, perchè essere debitori incatenati a una banca sia meno lesivo dell'indipendenza rispetto a scegliersi (e gli avvocati sono tipi smaliziati) un socio finanziatore è una cosa che ancora non è chiara. Tutti ricordano d'altronde, che il divieto di società di capitali stabilito nel 1939 era una norma antisemita per proibire agli avvocati ebrei, messi al bando, di esercitare in anonimato".
E IO AGGIUNGO: PERCHE' UN AVVOCATO "SUPERUOMO INDIPENDENTE" DOVREBBE ESSER GIUDICATO DA UN GIUDICE SPECIALE, IL CNF, CHE NON E' UN GIUDICE DOTATO DELLA INDISPENSABILE TERZIETA' (SIA PER EFFETTO DELL'ELEZIONE DEI SUOI COMPONENTI DA PARTE DI SOGGETTI CONCORRENTI DEL SOGGETTO SOTTOPOSTO A GIUDIZIO, SIA PER LE FUNZIONI ANCHE LEGISLATIVE E AMMINISTRATIVE CHE ESSO CNF ESERCITA) ?
Non si richieda all'avvocato, nella riforma forense, una "indipendenza” dal contenuto indefinito, che sia, come è oggi, flatus vocis o araba fenice. Si dia invece, nella legge regolatrice della professione forense, una definizione chiara del concetto di "indipendenza dell'avvocato" rilevante al fine dell'incompatibilità.
Ciò nella consapevolezza che la libertà e l'autonomia professionale hanno come presupposto anche e in primo luogo la libertà dal bisogno nell'autosufficienza reddituale, perchè l'essere l'avvocato economicamente indipendente lo valorizza come difensore affidabile.
A tal fine si consideri corretta la definizione di "indipendenza dell'avvocato" come mera assenza di un esercizio della professione in forma di lavoro dipendente.
Così, in sostanza, la definisce l'Avvocato generale Kokott nelle conclusioni depositate in Corte di giustizia, il 29/4/2010, nella causa C-550/07.
SONO FONDAMENTALI I PUNTI DA 51 A 72, IL PUNTO 118, I PUNTI 148 E 149, I PUNTI 181 E 182 delle conclusioni dell'Avvocato generale Kokott. Segnalo che la posizione dell'Avvocato generale è stata fatta propria dalla Corte di giustizia nel decidere la causa C-550/07.
Nella legge di riforma della professione forense, ha senso richiedere a pena di incompatibilità, solamente l'indipendenza economica dell'avvocato e cioè l'assenza di un rapporto di lavoro esclusivo (avente ad oggetto l'esercizio del servizio professionale di avvocato) tra cosui ed altro avvocato, suo datore unico di lavoro. Non ha senso, invece, prevedere l'incompatibilità tra professione di avvocato e esistenza di un rapporto di lavoro subordinato del tutto estraneo all'attività forense.
Comunque se, per garantire il cliente dai conflitti di interesse, si vuole ammettere per gli avvocati una qualche causa di incompatibilità ulteriore (rispetto a quella derivante dal fatto che si svolga il lavoro da avvocato subordinato o parasubordinato) tra la attività forense ed altra (lavorativa o non lavorativa) che sia costituzionalmente legittima, si deve dare attuazione al principio affermato da Cassazione, Sez. Lavoro, n. 23909 del 2007, nel decidere circa la legittimità di un licenziamento: il conflitto di interessi può esser rilevante solo se concreto.
La Cassazione, nella detta sentenza, è stata chiamata a decidere della valenza di un conflitto di interessi solo potenziale che aveva fondato il licenziamento di un impiegato di una impresa che lo aveva ritenuto colpevole di essere contemporaneamente rappresentante legale di un'altra società. La Cassazione ha deciso che se il conflitto di interessi è solo potenziale, e cioè ipotizzabile non in concreto ma solo in astratto, il licenziamento è illegittimo. Nella fattispecie la Suprema corte ha dato rilievo innanzitutto alle mansioni di magazziniere autista svolte dal dipendente, le quali nessuna attinenza potevano avere col rapporto tra le due società (e infatti nulla era stato dedotto in ordine alla violazione dei doveri contrattuali) e non potevano influire sul comportamento del datore di lavoro che aveva licenziato l'impiegato. Inoltre ha valutato che non è stata provata alcuna slealtà o scorrettezza del lavoratore.
Pare importante il principio avallato da Cass. 23909/07 secondo cui la valutazione dell'astratta possibilità di un conflitto di interessi tra le parti del rapporto di lavoro non contrasta logicamente con la affermazione della necessità di una verifica concreta di tale situazione.
Prima di tutto, dunque, nel legiferare si deve seguire il metodo adottato dalla Corte cost. 189/01 (che analizzò a fondo l'art. 1, commi 56 e ss della l. 662/96) ed effettuare una disamina analitica della sufficienza o meno delle cautele approntabili per evitare concreti rischi di conflitti di interessi. Solo in ipotesi di riconosciuta inefficacia delle cautele approntabili si potranno prevedere, nella legge, cause di incompatibilità astratta. Parimenti nella legge si dovrà attribuire ad organi di controllo il potere di verificare in concreto la ricorrenza d’una tipologia di conflitto d’interesse riconosciuta in astratto dalla legge.
E ancora: A) le cause di incompatibilità che in astratto si possono prevedere nella legge professionale devono “passare un vaglio positivo di ragionevolezza” (e non di non manifesta irragionevolezza);
B) in relazione alle cause di astratta incompatibilità previste dalla legge deve seguire, nell'applicazione concreta, la verifica dell'incompatibilità in concreto da parte di un organo di controllo che dia adeguate garanzie di terzietà.
Altrimenti opinando si dovrebbe riconoscere che i conflitti di interessi sono un problema reale ma senza soluzione (essendo questa o banale e inutile perchè facilmente “aggirabile”, oppure essendo la stessa impossibile perchè controproducente o socialmente irrealizzabile).
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